LE RAGIONI PER VOTARE SÌ

ARTICOLO 18: UN REFERENDUM DI TUTTI

di Paolo Cagna Ninchi, Presidente Comitato Promotore Referendum art.18

1. Con un dibattito surreale si avvicina la data del 15-16 giugno. Surreale perché i grandi mezzi di comunicazione, tv pubblica in testa, si rifiutano di informare i cittadini che tra un mese voteranno su due referendum, uno dei quali, il n, 1, è il referendum sull’articolo 18 promosso dal Comitato per le libertà e i diritti sociali di Milano. Cioè a dire il vero, se ne parla ma indirettamente, il punto centrale dei teatrini comunicazionali è "la politica": cosa fa Cofferati, è il referendum di Bertinotti contro l’Ulivo, ecc., dimenticando che il referendum è l’unico strumento di democrazia diretta a disposizione dei cittadini per intervenire sul legislatore, in primo luogo.In secondo luogo rispettando le ragioni dei promotori che non hanno un interesse che va oltre la vittoria del SI, cosa che legittimamente possono avere le forze che lo sostengono, chiunque esse siano. Allora vediamole un po’ queste ragioni dei promotori.

La vittoria del SI permette di realizzare un progetto incardinato nel principio dell’universalità dei diritti che leghi insieme: le questioni della rappresentanza, come diritto del cittadino lavoratore; l’estensione dell’art. 18 come diritto alla dignità della persona; la parità dei diritti e delle tutele sul lavoro a prescindere anche dalla nazionalità del lavoratore. Questo è il senso della proposta contenuta nel referendum di estendere a tutti e a tutte l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Lo Statuto dei Lavoratori diventò legge nel maggio del 1970, quando in Italia c’era il protagonismo sindacale sia all’interno delle grandi fabbriche dove nascevano i consigli di fabbrica, sia nella società che evolveva nella cultura e nel costume. Nei trent’anni che sono trascorsi sono profondamente cambiati la struttura produttiva, l’organizzazione e il mercato del lavoro: gli addetti nelle medie e grandi imprese erano maggioranza ora il rapporto si è rovesciato a favore delle imprese sotto i 15 dipendenti, per una modifica strutturale dell’assetto produttivo attraverso i grandi processi di outsourcing; negli ultimi dieci anni si è rovesciato anche il rapporto tra lavoro a tempo determinato e lavoro a tempo indeterminato; si è ridisegnata la struttura sociale con due grandi fratture che si intersecano tra loro: una tra lavoro ed esclusione sociale e una tra lavoro regolare e lavoro irregolare.

Quindi se da un lato vi è una questione che riguarda dignità, sicurezza sul posto di lavoro (3 milioni di infortuni all’anno di cui più di 1300 mortali) e libertà dei lavoratori, dall’altro c’è il problema di tutele e norme con questo valore che non hanno un carattere generale in una situazione nella quale, tra l’altro, la protezione sociale è estremamente fragile.

L’altro elemento che ha caratterizzato questo trentennio è costituito dai grandi processi di trasformazione legati allo straordinario progredire dell’innovazione tecnologica. Ma l’innovazione, anziché migliorare le condizioni di lavoro e produrre più ricchezza per tutti è stata finalizzata a un’enorme riconversione dei processi di lavoro, e insieme con il decentramento produttivo nelle aree nelle quali il costo del lavoro è svincolato da diritti e tutele, ha consentito un devastante attacco ai diritti sociali – il welfare - e alle libertà del lavoro nei paesi del primo mondo come condizione dell’ultima fase dello sviluppo capitalistico.

Infine il mercato globale ha reso strutturale il ricorso alla dequalificazione sociale del lavoro come strumento fondamentale della competizione capitalistica e questo processo si fonda essenzialmente sul radicale cambiamento dell’impianto costruito in un secolo di conflitto sociale, di organizzazione delle grandi masse lavoratrici sia sul piano sociale con il sindacato, sia sul piano politico con i partiti della sinistra.

Oggi questa storia si conclude con l’approvazione da parte del governo della legge delega 848 sul mercato del lavoro che fa della precarietà la nuova forma istituzionale del lavoro, cancella il contratto come strumento collettivo e elimina il ruolo di rappresentanza e di contrattazione del sindacato. Così trent’anni dopo quella che sembrava una conquista destinata a durare anche come conquista di un parametro di civiltà, il complesso di norme approvato dalla legge delega costituisce il più radicale attacco al sistema di regole e diritti costruiti in un secolo di lotte sociali, politiche e giuridiche; stravolge l’intero diritto del lavoro, attua una vera, profonda rivoluzione del patto sociale su cui si regge la Costituzione..

Rispondere a questo attacco a tappeto non è possibile limitandosi a un’azione puramente difensiva e di contenimento dell’aggressività di una destra che ha un programma chiarissimo: impresa e competitività al governo dell’economia, del lavoro e dello stato sociale; attacco al modello universale di scuola e sanità; messa in discussione della mediazione sociale realizzata attraverso il ruolo delle rappresentanze sociali e politiche su cui si fonda la nostra Costituzione.

Considerando questo stato di cose il referendum rappresenta non solo l’opportunità, ma la necessità di rovesciare questa tendenza, mettere al centro dello scontro politico il tema del lavoro e del suo ruolo per le persone e per la società.

Né basta difendere la situazione esistente, già precaria di per sé – il 95% delle imprese e il 64% dei lavoratori dipendenti non ha più la tutela dell’articolo 18 - per mantenere l’efficacia della norma che impedisce che un lavoratore non possa essere licenziato senza giustificato motivo.

Voglio sottolineare tema della universalità dei diritti, principio liberale, ostico ai liberal-liberisti di oggi, perché esso è tanto più cruciale nella situazione attuale, nella quale le diverse fasi della produzione vengono distribuite in varie parti del mondo, considerato quale centro produttivo globale, facendo così emergere differenze di trattamento, di condizioni di lavoro e frammentazioni dei diritti dei lavoratori. Da una parte quindi produzione senza confini e, dall’altra, diritti confinati.

Non si difende un diritto se lo si lascia a pochi, così come un diritto o è universale o non è. Per questo io credo che la campagna per l’estensione dell’articolo 18, per la vittoria del SI, riguarda da un lato dignità, sicurezza sul posto di lavoro e libertà dei lavoratori, dall’altro rende effettiva la nostra Costituzione, dà corpo alla Carta europea dei diritti fondamentali, deve incidere sulla Costituzione europea a cui si sta lavorando in questa fase.  

2. Ma detto tutto ciò, consideriamo le critiche che vengono mosse al referendum.

C’è troppa rigidità nel lavoro dicono governo e Confindustria. Tralasciando il dato oramai noto che le nuove forme contrattuali hanno introdotto decine di forme di lavoro flessibile e che già oggi i famosi co.co.co. sono oltre 2 milioni, è bene riflettere su un dato: negli ultimi dieci anni sono stati licenziati 2.500.000 lavoratori, mentre ne vengono reintegrati ogni anno in forza dell’articolo 18 circa 1300. Questo vuol dire che nel nostro Paese si può licenziare liberamente per ragioni che riguardano l’andamento dell’impresa. Inoltre lo stesso Statuto dei lavoratori all’articolo 7 prevede le procedure di licenziamento in caso di intervento disciplinare. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori impedisce soltanto che un lavoratore possa essere licenziato senza giustificato motivo e, nel caso ciò avvenisse, consente che quel lavoratore possa rivolgersi alla magistratura, ovvero a un giudice terzo, per ritornare in possesso di ciò che gli è stato ingiustamente tolto: il posto di lavoro. Vale a dire, citando Massimo D’Antona, di quei «diritti fondamentali che devono riguardare il lavoratore non in quanto parte di un qualsiasi tipo di rapporto contrattuale, ma in quanto persona che si aspetta dal lavoro l’identità, il reddito, la sicurezza, cioè i fattori costitutivi della sua vita e della sua personalità». Favorisce forse lo sviluppo, fa emergere dal sommerso, rende l’impresa più competitiva poter licenziare liberamente il lavoratore che porta i capelli lunghi, la lavoratrice che denuncia molestie sessuali, l’impiegato di banca omosessuale, l’immigrato che perde tre dita sotto una pressa, la commessa che va in maternità? Questi sono casi emblematici di sentenze di reintegro che chiunque può trovare sulle riviste giuridiche e che ci dicono che senza la tutela reale dal licenziamento arbitrario, il lavoratore vive sotto un ricatto permanente, che non consente il concreto ed effettivo esercizio dei propri diritti, lo rende totalmente indifeso di fronte all’arbitrio e inoltre impoverisce il suo contributo alla qualità del lavoro a detrimento anche dell’impresa.  

Ci sono poi i molti dubbi della sinistra.

L’intenzione è buona, lo strumento, il referendum, è sbagliato, si dice. Intanto il referendum è un diritto costituzionale, unica forma di intervento popolare sul legislatore e di proposta al paese da parte di una minoranza, per questo non ci può essere un referendum buono – quello che modifica l’articolo 18 che voleva Cofferati – e uno cattivo - quello che lo estende. In ogni caso dopo la sentenza della Consulta, questa discussione è accademica: il referendum c’è e non si può evitare se non con una legge che estenda l’articolo 18, vada cioè nel senso voluto dai promotori.

E per una legge sono in campo più proposte, compresa quella della CGIL. Una buona cosa e una importante battaglia parlamentare, se verrà fatta. E il comitato che ha promosso il referendum, anche per il suo ruolo istituzionale, non è contrario a una legge, solo sa – come tutti - che per farne una che vada nella direzione dell’estensione dei diritti - e quindi eviti il referendum e dia uno sbocco alla straordinaria mobilitazione del 2002 e ai 5 milioni di firme della CGIL - ci vogliono condizioni politico-parlamentari che oggi non ci sono.

Cade anche l’idea che si possa impedire per altra via se non referendaria l’approvazione delle modifiche all’articolo 18 contenute nel Patto per l’Italia, la legge delega 848bis. La difesa dell’articolo 18 così com’è oggi è possibile solo con la vittoria del SI. Nel 2003 il governo approverà la 848bis, se lo fa prima del referendum, essa verrà inglobata nel quesito, in quanto in contraddizione con esso, e quindi sottoposta al voto, se invece, come è certo, la fa dopo a maggior ragione è necessario sostenere il SI, perché non si legifera contro un voto popolare appena espresso, che, tra l’altro, per come è formulato il quesito, produce l’immediata efficacia della nuova norma senza intervento del legislatore.

Ma l’alleanza con le piccole imprese? Questa preoccupazione sembra sinceramente un po’ datata. Nella crisi dell’impianto produttivo del paese non sono alcune centinaia di vertenze per licenziamento ingiustificato a mandare a rotoli l’economia e Fazio, che lo sa, ci dice cosa è accaduto in questi anni al tessuto produttivo di questo paese, che ha oggi il 95% delle imprese sotto i 10 dipendenti.

C’è anche l’attacco "egualitario": date i diritti ai dipendenti garantiti, e agli atipici, al lavoratore in nero chi ci pensa? La risposta è semplice. Estendere la tutela dalla libertà di licenziamento ai 6.000.000 di lavoratori che oggi non l’hanno, non è già meglio che ridurla alla minoranza che ancora ce l’ha? E i 2.000.000 di atipici e i 3.000.000 di lavoratori in nero non conteranno sull’effetto che avrà la vittoria del SI, trovando ragioni di speranza e di solidarietà in un mondo del lavoro ricomposto e sottratto al ricatto permanente del licenziamento arbitrario? E non è forse per questo che il 23 marzo del 2002 erano a migliaia al circo Massimo?

Infine l’accusa più dura: divide la sinistra, è il referendum di Bertinotti.

Intanto, ringraziamo ancora Rifondazione, la FIOM, la CGIL di LavoroSocietà, i Verdi, Socialismo 2000, il sindacalismo extraconfederale, ATTAC, e gli altri soggetti che lo hanno sostenuto durante la raccolta delle firme e reso possibile. Ma noi non l’abbiamo promosso per unire la sinistra, né per definire uno schieramento, fare un nuovo partito o altro. Con il referendum vogliamo porre una questione di merito e non di schieramento. Poi diventa il referendum di Bertinotti (a parte la strumentale campagna di stampa) se si lascia solo lui a difenderne le ragioni: se lo fanno anche i DS diventerà il referendum di Fassino, ma non si dà questo caso perché Fassino è troppo occupato a inseguire Berlusconi; se lo fa, come ha fatto, la CGIL diventa il referendum della CGIL.

Noi promotori non siamo gelosi, chiediamo solo di ricordare che questo referendum è di tutti e che la battaglia per il SI è una battaglia per la giustizia, per la civiltà. Su questo chiediamo un giudizio.

E’ certo comunque che dalla vittoria del SI, può nascere una nuova stagione sociale e politica con vantaggio e ragioni di unità per una sinistra ancora troppo attenta alle logiche di schieramento, ai propri processi interni, piuttosto che alle domande della società, del mondo del lavoro, dei più deboli. Perciò proviamo a lavorare insieme a una campagna affrontata con spirito unitario e aperto, confrontandoci con tutti e tra tutti, senza barriere ideologiche, senza steccati di schieramento, senza logiche di primazia: per far crescere e diffondere nel nostro paese una cultura di libertà e di giustizia sociale.

Paolo Cagna Ninchi,

Presidente Comitato promotore del Referendum sull’Articolo 18 dello

Statuto dei Lavoratori

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